L'acqua mi ha sempre fatto un effetto particolare. E' a
contatto con l'acqua che spesso mi si illumina la mente.
Due giorni fa, a casa di un amico, Marianne Faithfull. Deep water, musica di sottofondo dei titoli di coda di "One more time with feeling", film documentario sulla sofferenza di Nick Cave.
In bianco e nero, ma più nero che bianco, in inglese, con i
sottotitoli, in 3d.
Un senso di nausea che non sai spiegare se sia dovuto al non
poterti togliere gli occhiali o alla densità delle emozioni.
Apnea, è lo stato in cui si trovano tutti quelli che
guardano il film con me, estranei accomunati dalla passione per la depressione,
forse.
Nick Cave è cambiato, non è più lo stesso, e forse non sarà
mai più quello di prima. Nonostante questo, mette tutti in secondo piano con il
suo carisma. E' potente la sua immagine, potente la sua energia. Non ha
importanza quanto il film sia ben strutturato, ben montato o ben realizzato (3d
a parte, che avrei evitato senza pensarci su due volte), perché la presenza
scenica, il fascino, l'intelligenza di un uomo che è protagonista del palco
come della sua vita, lasciano tutto e tutti in secondo piano.
Ci ho pensato per giorni, senza riuscire veramente ad
elaborare i pensieri. Le parole impresse nel cervello, i discorsi metabolizzati
in un minuto, i testi delle canzoni spiegati, recitati, indelebili.
E' la vita osservata da un uomo intelligente, che non è
sempre a lieto fine, che è cambiata irreversibilmente con la morte del figlio.
Una distrazione imperdonabile, un momento di buio dal quale è impossibile
risvegliarsi. Un uomo nuovo, vecchio, o comunque non più giovane. Una
quotidianità stravolta, che viene osservata con lo sguardo attentissimo di chi
sa cosa voglia dire vivere la propria vita con consapevolezza, e che nonostante
questo non trova un modo, e non conta di trovarlo.
Illuminante, magico, ipnotico. La devastazione di un uomo
condita dall'inquietudine che sempre ha contraddistinto la sua musica.
Rispettoso, composto, elegante. Lascia trasparire la sua
rabbia, la sua frustrazione, ma soprattutto la sua sofferenza, senza cadere mai
nel patetico, senza essere mai stucchevole, seppur malinconico.
Questi gli aspetti che riguardano strettamente la
"trama" del film.
Un'altra sfera si insinua invece nelle immagini e tra gli
spartiti e tra le improvvisazioni, ed è quella che riguarda la magia della
composizione. L'ispirazione, quella che sembra arrivare da "altrove".
L'artista che diventa un mezzo al servizio di una forza più grande, che lo
pervade e che lo anima nel momento della creazione. Una forma di trance,
imprescindibile ed inspiegabile, inevitabile.
Skeleton tree è una melodia in cui lasciarsi cullare come
dalle onde. Un lamento nel quale galleggiare, un mare semiagitato da cui farsi
trasportare, senza mai arrivare alla deriva. Un brodo primordiale di sentimenti
di cui non spaventarsi, perché quando ci si accorge di essere stati travolti,
ormai è già tardi, e non c'è altro da fare, se non lasciarsi andare.
Trasformare il dolore in creatività è difficile anche per
chi nel sangue ha l'arte.
Mostrarsi, senza aver paura di risultare un essere umano
(per quanto possibile). Esprimersi, senza essere mai banali, senza cadere nella
tentazione di piangere. Resistere, e contemporaneamente abbandonarsi.
Difficile, e comprensibili, come tutte le cose, solo a chi
vuol comprendere.
Il film, per chi vuole resistere.
Il disco, per chi vuole lasciarsi andare.
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